giovedì 24 dicembre 2015

Tango a Parigi

Ludovica guardava sconsolata la valigia che, abbandonata sul letto, proprio non voleva saperne di chiudersi.
«Maledizione!»
«Se non avessi comprato tutti quei souvenir, la valigia non farebbe così tanta fatica a chiudersi» la rimproverò il fratello, completamente stravaccato sul letto, senza alzare lo sguardo dal suo cellulare.
«Chiudi il becco, Giò!» gli ordinò.
«Nervosetta, eh?!» la prese in giro lui.
Nervosa era un eufemismo. Ludovica era a dir poco furiosa. Si trovavano a Parigi, in una delle più belle città d’Europa, ma erano sempre stati costretti a seguire i loro genitori in questo o quel museo, senza avere la benché minima possibilità di godersi qualche attimo in santa pace per vedere ciò che desideravano. Lei e Giovanni non erano più bambini e avrebbero meritato molta più libertà, fiducia e considerazione da parte loro.
Ludovica gli lanciò un’occhiataccia.
«Non fare così, Ludo. So come risollevarti il morale» e, alzatosi dal letto le si avvicinò, sventolandole davanti al viso il display del cellulare.
«Smettila, stupido!» disse infastidita, spostandogli il braccio.
«Guarda meglio» bisbigliò Giovanni divertito, mostrandole di nuovo il display. Sullo schermo c’era la mappa della metropolitana di Parigi.
«Quindi?» sbottò lei senza capire.
«Quindi questa sera ce ne andremo a fare un bel giretto per Parigi, senza che mamma e papà lo scoprano».
«Ma sei impazzito?!»
«Per niente! A quest’ora saranno già andati a dormire, visto che ci dobbiamo alzare presto domani e papà deve guidare tutto il giorno. Possiamo uscire e tornare senza che lo sappiano. Abbiamo più di vent’anni, cavolo! Ci meritiamo un po’ di libertà».
«Confermo! Sei completamente uscito di senno» disse Ludovica di fronte all’espressione maliziosa del fratello.
«Puoi restare qui, se vuoi» mormorò lui afferrando la giacca e preparandosi ad uscire, «io andrò comunque».
Ludovica lo guardò titubante. Da una parte voleva uscire e vedere Parigi senza avere i genitori perennemente addosso. Voleva, almeno per una sera, sentirsi libera e fare quello che desiderava. Dall’altra parte si sentiva in colpa perché non avrebbe voluto disobbedire ai suoi e temeva le eventuali ripercussioni nel caso in cui fossero stati scoperti.
Giovanni aprì la porta e uscì dalla stanza. Stava per richiudersela alle spalle quando Ludovica esclamò: «Aspettami!»
«Ah, ti sei decisa finalmente!»
«Qualcuno dovrà pur tenerti d’occhio» rispose a mo’ di scusa, mentre, ancora incerta, si dava un’ultima occhiata allo specchio prima di uscire.
Soffocando una risata, Giovanni si voltò e si avviò lungo le scale.

***

Le metropolitane, in qualunque parte del mondo ci si trovi, non sono certo il posto più sicuro o pulito. Ludovica lo sapeva bene, dato che la madre non perdeva mai l’occasione per ripeterglielo. Non che ce ne fosse bisogno. Bastava guardarsi un po’ intorno per sentirsi ben poco al sicuro. Se ne stava seduta sul bordo del seggiolino, tenendosi stretta la borsetta fra le braccia, chiedendosi ancora se aveva fatto bene a dar retta a suo fratello.
«Rilassati, Ludo. Ormai è fatta, quindi cerca di non pensarci troppo su e goditi questo momento» disse lui sporgendosi in avanti verso di lei.
«Hai ragione» bisbigliò.
Giovanni la guardò a bocca aperta: «Mi stai dando ragione? Oh, mamma! Mi sa che hai la febbre sorellina», scherzò lui, «Forse dovrei riportarti indietro prima…»
Ludovica cercò di sferrargli un calcio sullo stinco ma quasi perse l’equilibrio nel tentativo, facendo sbellicare il fratello dalle risate. Giovanni iniziò a ridere così forte che alcuni dei passeggeri si voltarono a fissarli.
Fortunatamente l’albergo non era molto distante dal luogo in cui Giovanni voleva andare così, dopo appena due fermate, fece cenno alla sorella e scesero a Champ de Mars 1. Gli occhi di Ludovica si illuminarono non appena lesse il cartello: «Mi stai portando a vedere la Tour Eiffel, non è vero?»
«Ci sei arrivata. Era ora!» la stuzzicò lui.
«Dovresti sapere ormai che non ho il benché minimo senso dell’orientamento. Per me la piantina della metropolitana rimarrà un mistero» rispose lei con un sorriso. Giovanni notò con piacere che finalmente iniziava a rilassarsi.
Una volta usciti dalla metro, Ludovica rimase incantata dall’atmosfera in cui si trovava. Si trovavano sulla rive gauche 2 della Senna, la notte era ormai scesa ma l’oscurità non riusciva ad avvolgere completamente la città. Trascinò Giovanni fino al parapetto da cui si poteva godere di una vista straordinaria. Gli edifici illuminati si riflettevano sulla Senna creando giochi di luce incantevoli. Non c’erano dubbi: Parigi era davvero la città dell’amore. L’atmosfera che si respirava sarebbe stata in grado di sciogliere anche il cuore più duro.
Voltandosi verso il fratello, Ludovica vide la Tour Eiffel in lontananza e rimase senza fiato. La Dame de Fer 3 era interamente rivestita di luci dorate e si stagliava contro l’oscurità del cielo. Era la cosa più bella che avesse mai visto. Non ci sono parole per descrivere l’emozione che provò in quel momento. Era estasiata.
Essere usciti di nascosto ora non le sembrava più una brutta idea.
«Forza, Ludo. Andiamo!» esclamò Giovanni dopo aver guardato l’orologio.
«Dove?» chiese lei distogliendo a fatica gli occhi da quella meraviglia .
«A vederla da vicino» rispose ridendo e si mise a correre, inseguito dalla sorella.
Quando arrivarono davanti la Tour Eiffel mancavano un paio di minuti alle undici. Ludovica ansimava per la corsa, ma questo non le impedì di maledire il fratello.
«Idiota! Era necessario correre via in quel modo???»
«Certo che sì» rispose sfoderando uno dei suoi finti sorrisetti angelici. Ludovica non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere. Era impossibile rimanere seri di fronte alle espressioni da cretino che suo fratello adorava sfoggiare quando ne aveva voglia.
«Guarda» disse lui allo scoccare delle undici, indicandole la Tour Eiffel.
Ludovica si voltò e rimase a fissarla a bocca aperta. Se prima aveva pensato che fosse bellissima, ora le sembrava magnifica. Sulla sua superficie erano stati incastonati, come dei diamanti, dei faretti bianchi che brillavano allo scoccare di ogni ora, rendendo l’atmosfera ancora più magica e spettacolare. Rimasero lì per cinque minuti, il naso rivolto verso quella meraviglia, finché l’incantesimo non ebbe fine.
«Bella, vero?»
Ludovica, troppo imbambolata per rispondere, si limitò ad annuire. Sarebbe rimasta volentieri lì ad ammirarla fino all’alba, ma Giovanni aveva altri piani per quella notte. A malincuore si lasciò trascinare via, lasciandosi la Tour Eiffel alle spalle. Non poteva fare a meno di voltarsi in continuazione, suscitando l’irritazione del fratello che, seccato, si voltò e se la caricò sulla spalla.
«Mettimi giù, stupido!» protestò lei.
«Non ne ho nessuna intenzione» rispose serafico, continuando a camminare lungo la riva della Senna.
«Mettimi giù, ho detto!» ripeté lei alzando la voce e attirando gli sguardi di alcuni passanti.
«Mettimi giù o dirò alla mamma che mi hai costretta ad uscire stasera», lo minacciò.
Giovanni si fermò e lasciò la presa. Ludovica si ritrovò a terra come un sacco di patate.
«Come comanda lei, padrona» disse lui sorridendo, facendole una sorta di inchino.
La faccia di Ludovica si tinse di un rosso acceso, ma fortunatamente la scarsità di lampioni celò il suo imbarazzo ai pochi spettatori che si erano fermati ad osservarli. Ignorando la mano tesa del fratello si rimise in piedi e gli voltò le spalle, continuando a camminare nella direzione in cui erano diretti. Giovanni le corse dietro e le mise un braccio intorno al collo:
«Mi dispiace, Ludo» si scusò.
«Idiota!»
«Dai su, non fare così. È la nostra unica sera di libertà».
«Era necessario gettarmi a terra?» sibilò.
«Lì te la sei un po’ cercata» rispose lui sovrappensiero, «Animo, ragazza mia! C’è un’altra cosa che vorrei mostrarti».
«E cosa?» chiese incuriosita, dimenticandosi di avercela con lui.
«Mmmh… è una sorpresa!»
I due ragazzi camminarono per un po’ lungo la riva. Appoggiata al braccio del fratello, gli occhi di Ludovica saettavano a destra e a sinistra cercando di non perdere nessun particolare di ciò che vedevano. Continuando a camminare, i suoi pensieri vennero interrotti da una melodia particolare. Seguendo la musica notarono un gruppo di persone che danzavano poco più avanti, mentre altri li osservavano.
«La sera alcuni ballerini di tango si radunano qui per ballare», le spiegò Giovanni, «soprattutto d’estate quando le scuole di ballo sono chiuse. Vieni, sediamoci su quella panchina».
Affascinata dalla sensualità che i ballerini trasmettevano, Ludovica si accorse a malapena che suo fratello l’aveva lasciata da sola come al solito per accalappiare una biondina che, come loro, si era fermata a guardare. Lanciando un’occhiata alla ragazza – la classica ragazza tutta curve, trucco ed extension, attratta solo da super palestrati – Ludovica pensò che anche quella volta suo fratello non aveva alcuna speranza. Doveva riconoscerglielo, però, Giovanni non si lasciava scoraggiare e ci provava sempre e comunque. Intenta ad osservare il fratello che sfoderava una delle sue tante frasi per rimorchiare, non si era accorta che uno dei ballerini si era allontanato dagli altri e le si era avvicinato. Sentendosi osservata, Ludovica si girò e incontrò il suo sguardo, due splendidi smeraldi, incorniciati da morbidi riccioli neri che gli accarezzavano la fronte. Il ragazzo le sorrise e le porse la mano:
«Voulez-vous danser, Mademoiselle?» 4
«Je… ne…» balbettò confusa. Avrebbe voluto spiegargli che non sapeva ballare ma purtroppo di francese conosceva solo quattro o cinque parole. Era già un miracolo che fosse riuscita a capire cosa le aveva detto.
Vedendola così impacciata, il ragazzo la prese per mano e la trascinò gentilmente in mezzo agli altri ballerini che non avevano mai smesso di ballare. Una volta raggiunto il centro di quella pista improvvisata, prese la mano sinistra di Ludovica e se la posò sulla spalla mentre la sua mano destra scivolò dolcemente dietro la schiena di lei, attirandola a sé.
Se non fosse stata inebriata dal suo sguardo probabilmente Ludovica, timida com’era, non avrebbe mai accettato di mettersi così al centro dell’attenzione. Una piccola parte di lei era consapevole che una volta rimasta sola col fratello, lui non avrebbe esitato a prenderla in giro per la figuraccia che avrebbe sicuramente fatto, visto che non sapeva ballare. Persino un lampione era meno rigido di lei. Ogni volta che i suoi amici decidevano di andare in discoteca, Ludovica inventava qualche scusa.
Questa volta però, invece di lasciarsi guidare dalla musica, Ludovica si lasciò guidare da quel bellissimo ragazzo che aveva di fronte e che non smetteva di guardarla. Le sarebbe piaciuto chiedergli il suo nome, ma non sapeva come, così si limitò ad immergersi nei suoi occhi mentre lui la guidava. Man mano che ballavano i loro corpi sembravano attirarsi come due calamite, avvicinandosi sempre di più, finché Ludovica si ritrovò stretta fra le sue braccia. Poteva quasi sentire il cuore del ragazzo battere contro il suo. Lui appoggiò la fronte alla sua e le sorrise. Il suo sorriso era caldo e suadente e Ludovica non poté fare a meno di arrossire. Sembrava quasi di essere in un sogno e lei avrebbe voluto restare così per sempre, ma purtroppo anche i sogni sono destinati a finire.
Ludovica udì la voce del fratello che la chiamava e si voltò. Lo vide poco distante, in mezzo alla gente che li osservava. Le stava facendo cenno che era ora di andare. Lei si girò verso il ragazzo che, deluso, le accarezzò il braccio. Aveva compreso che lei non poteva restare e sembrava visibilmente triste.
Pensando che quella era la loro ultima sera a Parigi e che non l’avrebbe più rivisto, Ludovica fece una cosa che sorprese persino lei stessa. Si avvicinò a lui e, dopo avergli sfiorato il viso, lo baciò. Le labbra del ragazzo si schiusero dolcemente e lui la strinse tra le sue braccia. Quando le loro lingue furono costrette a separarsi, Ludovica guardò in quell’abisso verde che, per la prima volta nella sua vita, aveva scatenato in lei una forza e un coraggio che non sapeva di avere, abbattendo ogni timidezza. Lui le sorrise di nuovo e lei, dopo aver sfiorato le labbra di lui per l’ultima volta, si girò e corse via, senza voltarsi indietro.

1 Significa “Campo di Marte”. È un giardino pubblico di Parigi, delimitato a nord-ovest dalla Tour Eiffel.
2
In francese significa “riva sinistra”.

3 “Dama di Ferro”, altro nome con cui è conosciuta la Tour Eiffel.
4
“«Volete ballare, signorina?»”


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Questa storia nasce proprio a Parigi, durante una stupenda e romantica visita guidata sulla Senna. Era una sera d'agosto e il battello scivolava placidamente sul fiume. Ogni angolo di Parigi era illuminato e sulle rive ballerini di ogni tipo danzavano e si divertivano. Era davvero uno spettacolo straordinario. Quella serata mi è rimasta nel cuore e ho cercato di ricreare parte di quella magica atmosfera con questo racconto.

Vi faccio tantissimi auguri e spero che tutti i vostri sogni si realizzino!

 

domenica 13 dicembre 2015

Ricordi di Natale


Barbara osservò i bambini dormire sereni nei loro letti, un dolce e tenero sorriso stampato su ognuno di quei bei visetti. Era la notte di Natale, ed era stata veramente un'impresa convincerli ad andare a letto. Anna e Tommaso avevano supplicato a lungo di rimanere alzati ad aspettare l'arrivo di Babbo Natale, ma quando aveva detto loro che se fossero rimasti in piedi lui non sarebbe venuto, si erano decisi, seppur controvoglia, ad andare a letto.
Come ogni Natale, Barbara aveva preparato loro una bella cioccolata calda, accompagnata da dei graziosi biscotti che i bambini l'avevano aiutata a realizzare nel pomeriggio, e avevano prepato una cioccolata calda e un piattino di biscotti anche per Babbo Natale, insieme ad una letterina di ringraziamento che Anna aveva scritto per lui.
Barbara socchiuse la porta della loro stanza mentre si avviava verso il soggiorno.
«Si sono addormentati?» domandò il marito.
«Sì, dormono come sassi».
«Bene» e, afferrato uno dei biscotti dal piattino, se lo mise in bocca e aprì la cassapanca dove ogni anno nascondevano i regali per i bambini. Era strano, ma quello era l'unico posto in cui non pensavano mai di andare a guardare. La settimana prima di Natale giravano per casa rovistando ovunque e mettendo tutto a soqquadro, ma a nessuno dei due era mai venuto in mente di guardare nella cassapanca, probabilmente perchè sono le cose che abbiamo sotto il naso ogni giorno che si danno per scontate.
Mentre Massimo spazzolava la merenda di Babbo Natale, Barbara disponeva accuratamente i regali sotto l'albero, certa che l'indomani i bambini si sarebbero alzati presto e sarebbero accorsi a controllare il loro bottino, buttando tutto all'aria.
Dopo aver finito, Barbara alzò la testa e lo sguardo le cadde su uno degli angioletti che decoravano l'albero. Era un angelo che sua madre aveva realizzato all'uncinetto quando lei era solo una bambina. Lo sfiorò delicatamente con l'indice.
Quanto le mancava sua madre, specialmente in quel periodo dell'anno in cui l'affetto e il calore della famiglia sanno scaldare il cuore come nient'altro al mondo. Sua madre era morta quattro anni prima e non passava giorno in cui lei non sentisse la sua mancanza, ma a Natale... a Natale quel vuoto bruciava dolorosamente nel petto.
Barbara chiuse gli occhi, mentre la mente tornava indietro, ad un Natale passato. Lei e sua madre erano davanti al caminetto della loro casa di campagna. Se ne stavano sotto una coperta di lana a sorseggiare una cioccolata calda con la panna e un pizzico di cannella sopra, parlando del più e del meno, mentre suo padre disponeva sull'albero gli angioletti che sua madre aveva realizzato con tanta cura durante l'avvento. Tutte le decorazioni dell'albero erano rigorosamente fatte a mano da sua madre perchè, come ripeteva sempre lei, non c'era niente di più bello e prezioso di qualcosa fatto con le proprie mani.
Barbara riemerse dai suoi ricordi e sorrise all'angioletto, rimettendolo al suo posto. Sì, pensò, sua madre le mancava ogni giorno, ma vedere quelle decorazioni appese le ricordava che lei era sempre presente, nel suo cuore, negli occhi dei suoi figli e in ogni singolo gesto che compiva ogni giorno della sua vita.
Fece un lungo respiro profondo e l'odore di cannella che permeava l'aria le solleticò le narici, ricordandole che nessuno ci lascia mai per sempre.
Barbara prese suo marito per mano e si avviò verso la loro camera da letto. Erano ormai le due del mattino, e di sicuro le due piccole pesti si sarebbero svegliate alle sette, per aprire i loro regali. L'angioletto, intanto, continuò ad ondeggiare un altro secondo sul suo ramo, il sorriso dipinto in una smorfia buffa, mentre ogni rumore svaniva e la casa piombava dolcemente nel silenzio che precede i sogni. 
 
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L'avvicinarsi delle festività natalizie porta sempre con sè un po' di malinconia. Natale è una festa da trascorrere in famiglia o con le persone a noi più care e, dunque, in questo periodo la mancanza di una persona amata si fa sentire più forte. Il vuoto che sentiamo nel nostro cuore sembra aprirci un abisso dolceamaro fatto di ricordi. 
Questo racconto è un modo per ricordare che anche se quelle persone non ci sono più, rimarranno per sempre nei nostri cuori e continueranno a vegliare su di noi.

lunedì 7 dicembre 2015

Un anniversario speciale


L'imbarcazione scivolava dolcemente tra le onde. Gli occhi di Marta scrutavano meravigliati il sole che, come un amante, si tuffava appagato tra le braccia del mare. Il cielo era un'esplosione di colori e il vento le solleticava il viso. Marta chiuse gli occhi e sorrise. Era stata una giornata perfetta, all'insegna del romanticismo. Non poteva desiderare di più.
Il suo sguardo si posò sul marito, alla guida del motoscafo. Era fortunata ad averlo incontrato, lo sapeva bene. Fabio era una delle persone più dolci e altruiste che avesse mai conosciuto. Difficile non restare conquistati dal suo buon cuore e dal suo sorriso. Per festeggiare il loro secondo anniversario aveva pensato proprio a tutto: si era fatto prestare il motoscafo della sorella, aveva preparato un cestino da picnic per la cena e ora l'avrebbe portata a vedere i fuochi d'artificio sulla laguna di Venezia.
Sì! Era davvero una donna fortunata. A volte si domandava cosa mai trovasse in lei e cosa l'avesse spinto a sceglierla tra tutte le donne che gli sbavavano dietro. Una volta aveva provato a chiederglielo, ma lui, scherzando, le aveva risposto che si era innamorato alla follia dei suoi spaghetti alle vongole.
«Cosa c'è?», le domandò Fabio dopo aver notato il suo sguardo assorto.
«Niente», mentì lei con un sorriso, «Ricordami solo di ringraziare tua sorella per la barca».
«Non ringraziarla, fidati».
«Perché no?»
«Perché in cambio le ho promesso che terremo i gemelli il prossimo fine settimana».
Marta rimase senza parole. I gemelli erano due piccoli mostriciattoli di tre anni che passavano le giornate a correre per casa distruggendo, come un terremoto, tutto ciò che capitava loro a tiro. Lei arricciò le labbra al solo pensiero. Sarebbero stati due giorni tremendamente lunghi.
Notando l'espressione dipinta sul volto della moglie, Fabio non riuscì a trattenersi dal ridere.
«Suvvia amore, non sono così terribili» la prese in giro lui, sedendosi accanto a lei.
«No no, sono due angioletti», ribatté facendogli la linguaccia, «Ma solo quando dormono».
«Vorrà dire che gli daremo un litro di camomilla a testa»
«Nemmeno tutta la valeriana del mondo potrebbe calmare quelle due graziose bestioline», sbuffò.
Fabio la strinse dandole un piccolo bacio sulla punta del naso, poi immerse il suo viso nei suoi capelli. Dopo essersi inebriato del loro profumo, le sussurrò all'orecchio: «​Stavo scherzando».
Marta si staccò da lui​: «Come???​»
«​Era uno scherzo», ripeté lui.
Risentita, iniziò a colpirlo con un cuscino.
«​Scusa, scusa, scusa» la implorò lui per farla smettere.
Non appena Marta abbassò la mano che reggeva il cuscino, Fabio le saltò addosso e, bloccandola con il proprio corpo contro il ​​​bordo dell'imbarcazione, iniziò a farle il solletico.
«​Dai, Fabio... Smettila!!!» urlò lei tra una risata e l'altra.
«​Come desideri», l'accontentò lui.
Marta si aggrappò al bordo del motoscafo e lo fissò imbronciata.
Quell'espressione la faceva sembrare una bambina capricciosa. Una bellissima bambina capricciosa. Permalosa com'era, Fabio non le avrebbe mai confessato che era proprio per quel suo viso imbronciato, e per la buffa espressione che assumeva​​, che si era perdutamente innamorato di lei.
Appoggiò la fronte contro la sua e si immerse nelle profondità di quei meravigliosi occhi color cioccolato.
«​So come farmi perdonare»​ bisbigliò e, senza staccare gli occhi dai suoi, si allontanò di qualche passo, afferrando la borsa frigo da cui estrasse una piccola scatola di cartone che mise tra le mani di lei.
Quando Marta vide cosa conteneva, la sua espressione corrucciata lasciò il posto ad un dolcissimo sorriso denso di ricordi. All'interno della scatola c'era una coppetta di tiramisù, identica a quella che avevano mangiato al loro primo appuntamento.
«Sono tornato in quel ristorante, ieri sera, e l'ho comprato», le rivelò, «Basta per farmi perdonare?»
Come risposta Marta gli accarezzò i capelli e lo attirò a sé, mordicchiandogli il labbro inferiore.
La serata trascorse​​​ tranquilla. Il cielo era limpido e i due si misero ad osservare le stelle, divertendosi a trovare le varie costellazioni e inventandone di nuove.
Quando iniziarono i fuochi, Marta abbandonò le calde braccia di Fabio e si precipitò ad ammirarli, poggiando i gomiti sul bordo del motoscafo.
Fabio rimase seduto dall'altra parte, gli occhi fissi su di lei. Piacevolmente sorpreso, si accorse che, ogni volta che i fuochi d'artificio illuminavano la notte, il vestito bianco che Marta indossava diveniva quasi trasparente, permettendogli di assaporare con gli occhi le dolci curve della moglie. Senza pensarci due volte, si alzò e l'abbracciò da dietro, mentre le sue mani le sfioravano lentamente le braccia, per poi spostarsi lungo i fianchi.
«Non è la cosa più bella che tu abbia mai visto?» mormorò lei indicando lo spettacolo pirotecnico.
«La cosa più bella sei tu» sussurrò lui, «Ora ti andrebbe di dirmi quella cosa che hai tanta paura di dirmi?».
Fabio la strinse a sé senza permetterle di voltarsi, e una mano scese ad accarezzarle il ventre.
Spiazzata, Marta rimase senza parole. Come poteva saperlo?​
«Ho visto l'ecografia nella tua borsa l'altra sera, mentre cercavo le chiavi dell'auto. Perché non me l'hai detto prima?» domandò con voce tranquilla, senza alcuna nota di risentimento.
«Non lo so» disse lei, rispondendo più a se stessa che a lui, «Forse pensavo che una volta detto a qualcuno sarebbe diventato reale».
La sua Marta.
Fabio la fece voltare verso di lui, prendendole la testa fra le mani.
La sua dolce, permalosa, testarda e timorosa Marta. Aveva sempre paura di ogni cosa, di ogni piccola novità o cambiamento. E quello era un grosso cambiamento.
La baciò dolcemente, cercando di infonderle tutto l'amore che provava per lei.
Marta incrociò il suo sguardo.
«Speriamo solo non siano come i gemelli» mormorò e lui non poté non augurarsi la medesima cosa.

lunedì 30 novembre 2015

Un re che amava troppo - parte 5a

"La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo"
- Gianni Rodari -
Tempo fa ho iniziato a scrivere una fiaba a capitoli sul sito di THe iNCIPIT. Mi ci è voluto un po' per ritrovare l'ispirazione e proseguire il racconto, anche perché la votazione dei lettori era perennemente in una situazione di stallo e non riuscivo a scegliere la strada giusta per continuare questa storia.
La quarta parte si era conclusa con una domanda molto semplice, ovvero se spostare l'attenzione della storia su un altro personaggio (il re o la veggente) o se rimanere ad osservare gli avvenimenti dal punto di vista della principessa. Sebbene il giudizio dei lettori fosse completamente d'accordo sul cambiare la prospettiva di questa storia, non si era purtroppo giunti ad una decisione definitiva su chi fosse il personaggio migliore su quale concentrare la narrazione.
Se avete già letto i primi capitoli di questa fiaba e volete dunque scoprire qual è stata in definitiva la mia scelta, la quinta parte vi aspetta. Se, invece, non l'avete mai letta o volete rileggerla per rinfrescarvi la memoria, leggetela dall'inizio. Sono certa che non ve ne pentirete.
Una volta terminata la lettura, se lo desiderate, potrete aiutarmi a scegliere come proseguire al meglio questa fiaba.

mercoledì 25 novembre 2015

Personaggi stereotipati? No, grazie!

Creare un personaggio non è mai facile e può capitare di costruire personaggi stereotipati, vuoti e privi di spessore. Per poter dar vita a personaggi intriganti ci sono due cose molto importanti che bisogna fare: analizzare e sperimentare.

Leggete spesso, non soffermatevi su un solo genere o un solo autore in particolare; non leggete solo libri di autori noti o di grandi autori della letteratura moderna, ma provate anche a leggere racconti e libri di autori contemporanei, poco noti. Osservate il modo in cui vengono rappresentati i personaggi, quali emozioni suscitano e in cosa vi rispecchiano.
Ma perché soffermarsi solo sui libri, quando possiamo anche analizzare i personaggi creati ad hoc per film e telefilm?


Sapete, ho imparato molto su come costruire un personaggio guardando la serie tv Once Upon a Time, dove non esiste un cattivo o un eroe che sia completamente tale, ma dove la caratteristica più importante di ciascuno è la propria umanità.
A mio parere si tratta di una serie veramente bella e particolare per svariate ragioni.
Innanzitutto è un ottimo spunto per uno scrittore, soprattutto per quanto riguarda la caratterizzazione e lo sviluppo dei personaggi. Gli autori della serie hanno scelto di utilizzare personaggi ormai triti e ritriti: i personaggi delle fiabe. Chi di voi non conosce Biancaneve, Cenerentola, la Regina Cattiva, la Bella Addormentata o Cappuccetto Rosso? 
Tutti i personaggi che hanno accompagnato l'infanzia di generazioni sono stati raggruppati in questo telefilm, dando vita ad un universo unico e originale, ambientato sia nel mondo moderno che in quello delle fiabe. Se tutto questo non bastasse, le fiabe si mescolano a storie della letteratura moderna, come ad esempio Frankenstein o il Mago di Oz, dando vita ad una trama interessante e ricca di dettagli.
Si tratta sì di personaggi di cui forse si è parlato fin troppo, ma rappresentati in chiave moderna.
Non potete negare che si tratti di un'idea geniale.

Mi piace molto il modo in cui sono stati rappresentati i protagonisti e gli antagonisti delle fiabe: la candida Biancaneve dal cuore puro e immacolato assume un lato più umano e meno stereotipato. Le vicende che travolgono i personaggi conducono la dolce principessa a macchiare il suo cuore, come a ricordarci che anche la persona più buona del mondo in realtà è un essere umano capace di commettere errori.
La perfezione non esiste, dunque perché dipingere personaggi falsi e piatti? Un personaggio stereotipato non è altro che un personaggio vuoto. Create personaggi a 360°, con i loro difetti e le loro debolezze; così facendo permetterete ai vostri lettori di identificarsi con loro e di apprezzarli proprio per quei tratti che li rendono ciò che sono: umani.
La perfezione non è altro che pura illusione. 

In ogni storia che si rispetti ci deve sempre essere un cattivo, o almeno così dovrebbe essere, ma è il modo in cui lo rappresentiamo che può fare davvero la differenza, rendendo più avvincente la trama che andremo a comporre. 
Questa volta lasciamo da parte le fiabe e prendiamo come esempio un telefilm che secondo me calza a pennello. Sto parlando di Gotham 
Questo telefilm non è altro che una sorta di prequel di Batman. L'attenzione, però, non è incentrata sul giovane Bruce Wayne, bensì sul detective Jim Gordon, che sembra essere l'unico barlume di speranza per una città corrotta e preda di diversi Villans.
E' proprio su questi ultimi che vorrei spostare la vostra attenzione: molti di loro non sono dei veri e propri antagonisti, mentre altri ancora, all'inizio, appartengono per così dire "ai buoni" e difficilmente sospettereste di loro.
E' curioso vedere come gli autori abbiano scelto di raccontare nei minimi dettagli la storia di come ognuno di loro scelga poi di passare al "lato oscuro". Non è un percorso rapido, ma lento e graduale, fatto di piccoli gesti e decisioni sbagliate che rendono questi personaggi semplicemente umani.

Un autore deve continuamente sperimentare, giocare, creando personaggi sempre nuovi o, perché no, dando nuova vita ai personaggi a cui è affezionato. Provate a scrivere dei racconti per esercitarvi, non ve ne pentirete.
Interessante esempio è l'episodio diviso in due parti di Once Upon a Time - Operazione mangusta (4x21-22): i personaggi, a causa di un incantesimo, sono costretti a scambiarsi di ruolo e così la candida e amorevole Biancaneve prende il posto della Regina Cattiva, Tremotino diviene un cavaliere bianco che usa la sua magia per aiutare il prossimo e l'impavido Capitan Uncino diventa un timoroso e impacciato pirata. 
Un ottimo escamotage per ravvivare la trama e allo stesso tempo per esplorare ulteriormente i propri personaggi.



Forse tutto questo vi sembrerà scontato e penserete di aver sprecato il vostro tempo leggendo questo articolo, ma in realtà non è così: sono proprio le cose che si danno per scontate ad essere dimenticate per prime.


Per concludere, il consiglio che mi sento di darvi è questo:  
Leggete e Provate. Provate. Provate.

mercoledì 18 novembre 2015

In un giorno di pioggia

Il vento scompigliava i capelli di Veronica e ciocche ribelli le sferzavano il viso, come a voler cancellare quelle lacrime che testarde continuavano a sgorgare. Non sarebbe mai dovuta tornare lì, lo sapeva, su quella scogliera che racchiudeva così tanti ricordi di loro, di lui. Se chiudeva gli occhi poteva ancora sentire le sue labbra sfiorarle la fronte, prima di voltarsi e andarsene via, lontano da lei. 
«Ho trovato un'altra, mi dispiace Vero» erano state le ultime parole che lui le aveva rivolto. 
Veronica chiuse gli occhi, sentendo la rabbia montarle dentro e, incapace di trattenerla, urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Il suo grido venne soffocato da un'onda furente che si scaraventò contro la scogliera quasi volesse afferrarla e portarla via con sé. 
Il cielo plumbeo e minaccioso sembrava incombere su di lei.
Sii felice, aveva osato augurarle.
Cadde in ginocchio, le braccia strette al petto.
La pioggia iniziò a cadere lentamente, divenendo sempre più fitta, ma Veronica non se ne curò. In pochi minuti si ritrovò completamente inzuppata, i vestiti incollati addosso. Si rannicchiò per terra, in posizione fetale, cercando di arginare il dolore, lasciandosi sfiorare dal caldo abbraccio che la pioggia sembrava offrirle.
Chiuse gli occhi e immaginò che la pioggia lavasse via tutto il dolore.
Venne svegliata da un soffio di aria gelida, quando ormai era sera inoltrata. Non sapeva per quanto tempo era rimasta sdraiata lì, sulla nuda roccia. Alzò la testa in direzione della spiaggia e fu in quel momento che lo vide.
Passeggiava tranquillamente sotto la pioggia, protetto da un grande ombrello scuro, un ampio sorriso dipinto sulle labbra. Avanzava verso di lei a passo lento ma deciso.
Veronica si mise a sedere mentre osservava quell'anziano signore salire sugli scogli e raggiungerla per coprirla con il suo ombrello.
«Cosa ci fai qui, piccola? Ti prenderai un malanno. Guarda come sei inzuppata».
Lei, con il viso ancora bagnato di lacrime miste a pioggia, non sapeva cosa rispondere. Continuò a guardarlo in quei suoi occhi grigi, incapace di proferir parola.
«Fammi indovinare. E' colpa di un ragazzo, vero?»
Gli occhi di Veronica si riempirono nuovamente di lacrime.
«Suvvia, non piangere. Quel ragazzo non sa cosa si perde. Una bella ragazza come te troverà presto qualcuno di meglio» affermò lui porgendole un fazzoletto.
«Grazie» mormorò.
«Fossi stato qualche decennio più giovane non mi sarei fatto scappare una come te, ma mi sa che sono un po' troppo vecchio, vero?» disse lui scherzando.
Veronica non poté fare a meno di sorridere. Come un raggio di sole quello strano vecchietto così premuroso era riuscito a far breccia in quella nebbia fatta di tristezza, rabbia e delusione che l'avvolgeva.
Notando che la ragazza era bagnata fradicia e che l'aria si stava facendo sempre più fredda, l'anziano signore le cedette il suo cappotto e la invitò a seguirlo
«La mia casa è proprio qui dietro. Che ne dici di una bella cioccolata calda? Ti farebbe bene».
Colpita dalla generosità di quello sconosciuto, la ragazza accettò di buon grado e, stretti sotto l'ombrello, raggiunsero la piccola dimora del vecchio. Era una casetta di piccole dimensioni, ma entrandovi Veronica si sentì come a casa.
Lui si avvicinò in fretta al camino e, presa una coperta, insistette perché lei si sedesse lì a scaldarsi, mentre si destreggiava in cucina.
Gli occhi di Veronica osservavano la casa. Ovunque erano sparse fotografie che ritraevano lo stesso soggetto: una donna, non troppo giovane ma nemmeno troppo vecchia. Non era in grado di capirne l'età, ma si trattava comunque di una bella donna. Prima ancora che potesse aprir bocca il vecchio le mise tra le mani una bella tazza fumante, arricchita da un po' di panna montata e una spruzzata di cacao.
«Era mia moglie» spiegò il vecchio alludendo alle foto.
«Era?» disse lei in un sussurro.
«Il cancro me l'ha portata via tanti anni fa». I suoi occhi si posarono su una di quelle fotografie. La sua preferita era appesa appena sopra il caminetto e ritraeva la moglie sulla spiaggia, i capelli mossi dal vento e un leggero sorriso dipinto sulle labbra, lo stesso sorriso che sfiorava ora le labbra di lui al ricordo di quella giornata.
Pioveva da giorni e sua moglie, stanca di stare in casa a causa della malattia, aveva supplicato il marito di portarla a fare una passeggiata in spiaggia finché lui non aveva ceduto. Si erano recati lì nel primo pomeriggio, quando la pioggia aveva finalmente deciso di prendersi una pausa, lasciando che timidi raggi di sole rischiarassero il cielo grigio. La donna si era allontanata di qualche passo, aprendo le braccia e lasciandosi accarezzare dal tiepido calore del sole. Lui non aveva resistito alla tentazione e le aveva scattato quella fotografia per immortalare quel momento di serenità rubata, dopo mesi di sofferenza.
Era stata una delle loro ultime uscite. Qualche settimana dopo le condizioni della moglie si erano aggravate e il loro tempo era scivolato via veloce, come granelli di sabbia in una clessidra.
Ormai erano passati più di trent'anni, le raccontò, ma non passava giorno in cui lui non camminasse su quella spiaggia per rivivere il ricordo di lei, in attesa di raggiungerla.
Veronica non aveva mai conosciuto nessuno capace di un amore così grande, un amore che andava oltre la morte. Al suo confronto, quello che aveva vissuto lei si poteva definire al massimo un amore passeggero, privo di sostanza.
Si era fatto tardi e Veronica salutò quell'anziano signore, ringraziandolo di cuore per averle mostrato cosa significa amare davvero qualcuno e assicurandogli che non avrebbe più versato una lacrima per quel mascalzone che aveva avuto così poca considerazione di lei.

Gli anni passarono e Veronica non scordò mai di passare a trovare il suo vecchio amico la domenica pomeriggio. Camminarono insieme sulla spiaggia, a volte rimanendo in silenzio ad osservare la spiaggia, altre discorrendo del più e del meno. Lui la vide crescere e trasformarsi in una bellissima donna, capace di stupirlo con la sua semplicità. Se avesse avuto il privilegio di avere una figlia, avrebbe di sicuro desiderato che fosse come lei.
La ragazza disperata e triste che aveva visto quella sera sulla scogliera sembrava essere lontana anni luce dalla spensierata donna che gli stava ora davanti.
Una domenica, Veronica e il suo fidanzato si avviarono verso la casa del vecchio. Era da tanto che lei ci teneva a presentarglielo. I due provarono a bussare un paio di volte, ma l'uomo non era in casa.
Non era la prima volta che la precedeva in spiaggia, per cui Veronica non si preoccupò.
Passeggiarono sulla spiaggia, le scarpe in mano, quando un gruppetto di persone attirò la loro attenzione. Si avvicinarono incuriositi mentre due paramedici con una barella si stavano avvicinando ad un uomo riverso sulla sabbia. Quando lo issarono sulla barella, Veronica fu in grado di vedere il suo viso e lo riconobbe. Non c'era bisogno che glielo dicessero. Le era bastato vedere il sorriso dipinto sul volto di lui per capire che non c'era più nulla da fare. La morte l'aveva colto proprio lì, su quella spiaggia che tanto amava.
Veronica guardò verso il mare e una lacrima solitaria le scivolò lungo la guancia, ma lei l'asciugò con le dita. Le dispiaceva aver perso quel caro amico che aveva fatto così tanto per lei, ma in fondo al cuore sapeva che, ovunque fosse, ora lui era felice, circondato dalle braccia della persona che amava.

Veronica tornò spesso in quella spiaggia negli anni seguenti, a volte da sola, altre volte in compagnia. Un giorno, mentre girovagava tranquilla sulla spiaggia insieme a sua figlia, con la sabbia che dolcemente accarezzava loro i piedi, quest'ultima, curiosa come sempre, le domandò: «Perché veniamo sempre qui mamma?»
«Perché è un posto speciale, magico. E' la baia degli angeli».
«E tu ne hai mai incontrato uno mamma?»
«Sì, tesoro. In un giorno di pioggia» rispose lei, lo sguardo perso nel vuoto, in cerca di ricordi passati che, nonostante il tempo trascorso, continuavano a scaldarle il cuore.

lunedì 16 novembre 2015

Sussurri d'Anima

Sussurri d'Anima ritorna alla vita. Il mio vecchio sito web ha finalmente un nuovo volto e tante novità.
http://sussurridanima.altervista.org/
Ci ho messo un po', ma sono davvero soddisfatta del risultato.
 
Innanzitutto il sito è accessibile anche da tablet e smartphone, proprio come questo blog. Avrete sempre a portata di mano qualcosa da leggere.
 
Tutti i miei racconti sono stati catalogati per genere, fornendo a chiunque la possibilità di trovare facilmente i racconti in base ai suoi gusti, ma non solo!

Al giorno d'oggi le persone fanno sempre più fatica a ritagliarsi del tempo per leggere. C'è chi legge sull'autobus, sulla metro, in treno o mentre sta aspettando in fila alle poste, o in qualsiaso altro luogo o momento della giornata.
Perché dunque non suddividere i racconti in base al tempo di lettura
In questo modo ognuno può selezionare i racconti in base al tempo che ha a disposizione, senza essere quindi costretto ad interrompere la lettura proprio sul più bello (Cosa che a me capita abbastanza spesso. Che nervi!!!).
Nel menù troverete una simpatica icona a forma di orologio che vi permetterà di scegliere il racconto in base alle vostre esigenze. 
 
Semplice e veloce, non trovate?

sabato 14 novembre 2015

lunedì 2 novembre 2015

Sguardo al Futuro

Un racconto fantascientifico scritto questa primavera e disponibile sui principali store online. La storia si svolge nell'arco di quarantott'ore in un futuro particolare e ricco di fascino.

€ 0,99
Emmarose è un'abile croupier, insoddisfatta però del suo lavoro.
Un incontro inaspettato la condurrà a 764 anni da casa, catapultandola in un mondo a lei estraneo, dove tutto sembra assolutamente perfetto... ma sarà realmente così?

Estratto :
«Che città è questa?» domandò guardandolo.
Lui lesse nei suoi occhi lo stupore e la diffidenza che vi racchiudevano, ma anche la curiosità che celava nel suo cuore. Si staccò dalla parete e la raggiunse, indicandole gli edifici con la mano.
«Questa non è una città. E' La Città. L'unica e la sola città presente sul pianeta». Il suo tono era così serio e deciso, che Emmarose scartò subito l'ipotesi che la stesse prendendo in giro. Non era certa di quale fosse il motivo che la spingesse a credergli, ma sentiva che poteva fidarsi di lui.
«Siamo nel 2779 e La Città si estende su tutta la superficie terrestre» spiegò lui.

Dove trovarlo:

mercoledì 28 ottobre 2015

Bloody Mary

Tra 50 metri, girare a destra.
Girare a destra.

«Stupido navigatore! Non c’è nessuna strada a destra» esclamò Dylan lanciando un’occhiata furente al display dell’apparecchio. «Te l’avevo detto che era meglio festeggiare Halloween con un bel pigiama party a base di film horror e popcorn» si lamentò Holly.
«Ma Sean ha organizzato una festa nella sua casa al lago» disse Dylan, accostando la macchina sul ciglio della strada.
«Tanto lo so che vuoi andarci solo perché ci sarà anche suo cugino Matt» sghignazzò l’amica, «Piuttosto… dove siamo finite?»
«Non lo so. Questo coso ha scelto il momento sbagliato per scaricarsi».
«Beh, tira fuori il caricabatteria».
«Ehm… l’ho dimenticato a casa» rispose Dylan mordendosi il labbro.
«Meno male che hai la testa attaccata al collo o dimenticheresti anche quella» disse Holly tirando fuori il cellulare. Infastidita lo gettò di nuovo nella borsa. Non c’era campo.
«Proviamo ad andare avanti» propose Dylan, ma l’auto sembrava essere di un altro avviso.
«Perfetto» sbottò Holly, «Bloccate in una strada deserta, circondate dalla nebbia. Un’atmosfera perfetta per la notte di Halloween».
«Dai, Holly! Mi dispiace, okay?»
«Immagino che qui non passi anima viva. Sarà meglio uscire e cercare un’abitazione, così potremmo farci venire a prendere. Ah! Mi devi una serata con film e popcorn. Sappilo!»
«Certo» disse Dylan con un ampio sorriso, «Anche due».
Le ragazze uscirono dall’auto e si incamminarono lungo la strada deserta, delimitata da campi. Camminarono per circa mezz’ora quando videro un edificio sulla sinistra.
«Proviamo lì» suggerì Holly.
«Non sembra una casa» obiettò Dylan.
«Ma avrà senz’altro un telefono, no?»
Titubante, Dylan la seguì.
«È una scuola» disse.
«Era, vorrai dire» precisò Holly, indicando il lucchetto arrugginito che chiudeva il cancello.
«Andiamo via Holly. Questo posto mi dà i brividi».
«Non essere sciocca, cucciola» la rimproverò dolcemente, «Ci sarà sicuramente un telefono là dentro. Se siamo fortunate funziona ancora».
«Ma come facciamo ad entrare?»
Holly le fece l’occhiolino e sferrò un calcio al lucchetto che cedette senza problemi.
«Voilà» disse lei spalancando il cancello.
L’edificio era vecchio e fatiscente, probabilmente abbandonato da molti anni. Una ventina constatò Dylan guardando le foto dei diplomi appesi nell’atrio.
Mentre camminavano attraverso uno dei corridoi della scuola, Holly strinse il braccio di Dylan.
«Ehi, guarda. Lì c’è un bagno. Entriamo dai, devo controllare i capelli» disse Holly.
«Eh?»
«Con tutta l’umidità che c’è fuori di sicuro sembrerò un clown. Non posso mica presentarmi alla festa con i capelli in disordine» puntualizzò.
Holly spinse la porta del bagno e puntò dritta verso lo specchio. Dylan la osservò guardarsi allo specchio e controllare che i suoi lunghi capelli castani non fossero fuori posto. Lei non provò nemmeno a sistemare i suoi ricci, che come al solito se ne stavano ognuno per conto proprio.
«Credi nel soprannaturale Dylan?» sussurrò Holly all’improvviso, guardandola attraverso lo specchio.
«No, penso ci sia sempre una spiegazione razionale dietro ogni cosa» affermò.
«Ti andrebbe di provare a fare una cosa?»
«Cosa?» domandò Dylan.
«Proviamo a invocarla» disse Holly entusiasta.
«Chi?»
«Bloody Mary. Si dice che se pronunci il suo nome tre volte davanti ad uno specchio lei apparirà», le spiegò e, vedendo il volto scettico dell’amica, aggiunse «Se hai ragione non dovrebbe succedere nulla, giusto? Avanti».
«Se ci tieni tanto» e si mise di fianco a lei.
Le due amiche ripeterono quel nome per tre volte, ma nulla accadde.
«Quanto sei credulona, Holly» la prese in giro, allontanandosi in direzione della porta. Delusa, Holly fece per seguirla, quando una sagoma vestita di bianco apparve sullo specchio. Prima che potesse aprir bocca il vetro dello specchio esplose all’improvviso, facendo voltare Dylan.
Tutto quello che la ragazza vide fu il corpo di Holly scivolare a terra. Un frammento di vetro conficcato alla base del collo. Il sangue iniziò a uscire copioso dalla ferita e a riversarsi sul pavimento del bagno, mentre il corpo sussultava. Terrorizzata, Dylan arretrò mentre un leggero scampanellìo risuonava per la stanza. Spostò lo sguardo dal corpo senza vita di Holly e i suoi occhi si fermarono sui frammenti dello specchio sparsi sul pavimento. In ogni frammento un paio di occhi neri la fissavano.
Uscì di corsa dal bagno, consapevole che qualcosa o qualcuno la stava seguendo. Corse veloce lungo il corridoio verso l’uscita. Stava quasi per attraversarla quando il piede inciampò su di un cavo facendola cadere.
«STOOOOOOOOOOOP!» urlò una voce.
Le luci si accesero all’istante e un uomo le si avvicinò aiutandola ad alzarsi.
«Tagliate questa scena. La rigireremo da capo domani e tu, cerca di stare più attenta Anna».
L’attrice si spazzolò i jeans e si scostò una ciocca dal viso, scusandosi. Non aveva proprio notato quel cavo.
Dopo che il regista diede loro qualche indicazione per il giorno seguente, lei e Sabrina si avviarono verso il loro camerino. Erano state davvero brave quel giorno e il regista sembrava davvero contento di aver scelto loro fra tante ragazze che si erano presentate ai provini per le parti di Dylan e Holly.
Mentre si rivestivano e si truccavano davanti allo specchio, preparandosi per uscire con alcuni membri della troupe, un leggero scampanellìo attirò la loro attenzione. Sabrina si voltò verso Anna che, credendo che si trattasse di uno scherzo aprì la porta e lanciò un’occhiata fuori, ma non c’era nessuno. Richiudendo la porta sentirono un leggero sussurro che si ripeteva, come una litania.
Bloody Mary. Bloody Mary. Bloody Mary.
Il grido strozzato di Sabrina richiamò la sua attenzione e Anna si voltò verso lo specchio dal quale grondava sangue. Cercarono di uscire dalla stanza ma la porta sembrava bloccata. Si girarono verso lo specchio.
Una sagoma bianca dagli occhi neri le stava fissando.
L’ultima cosa che sentirono furono le sue dita fredde stringere i loro cuori.

venerdì 23 ottobre 2015

How to start...

Iniziare a scrivere qualcosa, che sia un tema, un messaggio o un racconto, non è mai semplice. Molto spesso rimaniamo a fissare la pagina bianca, la penna sospesa sopra il foglio o il cursore del mouse che lampeggia insistente, in attesa che le parole inizino a fluire come per magia. 
L'ispirazione, di cui ho già parlato in un precedente post, spesso non tarda ad arrivare, ma come sarebbe effettivamente meglio iniziare una storia?
Prima che una scrittrice, sono innanzi tutto una lettrice e un'idea alla fine me la sono fatta.
L'incipit è forse la parte più importante di una storia perché può spingere il lettore a proseguire o ad abbandonare la lettura, dunque è bene tener presente che esistono, per quel che mi riguarda, due modi per iniziare una storia.



Il primo, e forse più il più semplice, è quello di iniziare un racconto in maniera lenta e graduale, partendo così dall'inizio e permettendo al lettore di entrare pian piano nella storia, quasi in punta di piedi, e di lasciarsi conquistare una parola alla volta.
Il secondo, invece, è ben diverso. Il lettore viene catapultato direttamente all'interno della storia che, spesso, è già iniziata. La narrazione non segue sempre una linea cronologica ma spesso è inframezzata da flashback o anticipazioni, con un ritmo abbastanza movimentato.
E' il tipo di incipit che amo e odio di più, sia come lettrice che come scrittrice. Iniziare in questo modo significa stregare letteralmente il proprio lettore sin dalle prime righe ed è una tecnica abbastanza complessa che si perfeziona nel corso del tempo. 
Ogni scrittore è più portato per una o per l'altra tecnica, ma questo non vuol dire che non possiamo sperimentarle e perfezionarle entrambe.
Detto questo, ovviamente l'ispirazione deve essere il motore principale che muove la nostra mano: sarà lei a condurci verso l'alternativa migliore da utilizzare. Mi piace pensare che le storie sorgano spontanee e siano dotate di vita propria. Meno interventi dovremo fare e migliore sarà la storia ma, badate bene, non sto dicendo di scrivere a casaccio; semplicemente lasciatevi guidare.
Direi che per oggi vi ho rubato abbastanza tempo, però sono curiosa...

... conoscete qualche altro modo per iniziare una storia?

♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦
Nel post di mercoledì 28 ottobre troverete un nuovo racconto inedito scritto lo scorso anno appositamente per Halloween ma, per creare un po' di suspense, non vi dirò di cosa di tratta ma vi lascerò come indzio l'immagine qui a fianco.
Riuscite ad indovinare il soggetto di questa storia?

sabato 17 ottobre 2015

No, non morirò per te

Avete mai notato che nei film le cose più brutte e tremende accadono sempre di notte o in luoghi bui e inospitali? Come se si volesse relegare ogni dolore in una sfera particolare, in cui tutto sembra oscuro e spaventoso. Si cerca di trasmettere allo spettatore il timore e la sofferenza che pervadono il protagonista attraverso colori e suoni poco rassicuranti e che lo predispongano a percepire quel momento come cruciale. E tutto ciò che lo spettatore prova in quel momento magicamente svanisce quando le luci della sala si riaccendono, dissolvendo la magia creata ad arte dai produttori.
Ma la realtà è ben diversa. Le cose brutte accadono sempre, non solo quando tramonta il sole e la notte stende la sua ombra su tutto e tutti. Ed è proprio in un giorno in cui il sole splendeva alto nel cielo che incontrai la morte.
A proposito... mi chiamo Eleonora e questo è ciò che è mi accaduto.​
Era un banale sabato di marzo e come al solito stavo andando a fare la spesa per il weekend. Mentre passeggiavo per il centro di Padova, passai accanto ad una pasticceria e i miei occhi non poterono non notare la meravigliosa torta esposta in vetrina. Una magnifica ed invitante Sacher che sembrava supplicarmi di comprarla.
Ovviamente non resistetti alla tentazione. Era la torta preferita di mio marito, oltre che la mia, così decisi che sarebbe stata un'ottima idea portargliela al lavoro visto che non sarebbe rientrato per pranzo. Era da un po' che non gli facevo una bella sorpresa e questa settimana era stato così impegnato con il lavoro, che pensai avrebbe gradito una bella fetta di torta per smaltire un po' di stress.
Mi diressi a passo spedito verso il suo ufficio, la torta fra le mani e un sorriso soddisfatto dipinto sul viso. Prima di entrare incrociai Lorenzo, uno dei colleghi preferiti di mio marito, che fumava una sigaretta vicino alla porta d'ingresso. Non appena mi vide il suo viso perse colore per un istante, ma poi mi salutò allegramente.
«Ehi, Ele... come stai? Tutto bene? Che ci fai qui?» la sua voce era strana. Non sembrava molto felice di vedermi, ma non avrei saputo spiegarne il motivo. Avevo sempre pensato di essergli simpatica.
«Ciao Lorenzo, tutto bene, sì. Sono passata a salutare Maurizio, gli ho portato una fetta di torta».
«Maurizio è uscito per una commissione, ritornerà più tardi. Mi dispiace» il suo sorriso era tirato e mentre mi parlava i suoi occhi cercavano di non incrociare il mio sguardo.
«Non importa, salgo un attimo a posare questa sulla sua scrivania e torno a casa».
Lorenzo cercò di mettersi tra me e la porta, ma non avevo proprio voglia di perdere tempo con lui, perciò aprii velocemente la porta evitandolo. L'ascensore nell'atrio era aperto e, dopo aver premuto il pulsante, cercai di sistemarmi i capelli come meglio potevo, osservando il mio riflesso sulla porta dell'ascensore.
L'ufficio di mio marito era all'ultimo piano. Essendo sabato la maggior parte degli impiegati era a casa a godersi il weekend, per cui l'intero piano era quasi deserto. Quando arrivai davanti alla porta dell'ufficio sentii la voce di mio marito che rideva. Era da un po' che non lo sentivo ridere così. Mi avvicinai e aprii leggermente la porta incuriosita, ma lo spettacolo che mi si presentò davanti agli occhi mi lasciò senza fiato.
Lui era davanti alla scrivania, i pantaloni abbassati e la camicia aperta, mentre Monica, la sua collega, se ne stava sdraiata lì di fronte con indosso solo della lingerie di pizzo nero. La torta mi scivolò dalle mani, mentre quella scena si imprimeva a fuoco nella mia mente.
Maurizio e Monica alzarono gli occhi e mi fissarono stupiti. Lui aprì bocca per dire qualcosa, ma non seppi mai cosa. Mi voltai di scatto e corsi come una furia, ignorando l'ascensore aperto, giù per le scale. Una volta raggiunto il piano terra imboccai l'uscita, finendo addosso a Lorenzo.
Senza una parola, ripresi a correre. Avrei dovuto scusarmi, ma non lo feci. Lui sapeva. Sapeva tutto. Aveva cercato di fermarmi quando ero arrivata.
Lacrime di rabbia si riversarono inarrestabili lungo il mio viso, mentre continuavo imperterrita a correre. Non so come né perché, ma mi ritrovai vicino alla ferrovia e lì mi fermai. Correre era inutile, i miei pensieri correvano più veloci di me. Il dolore, la rabbia, la tristezza, l'umiliazione mi rimanevano avvinghiati addosso lacerandomi nel profondo dell'anima.
Iniziai a camminare lentamente, mentre osservavo il mondo che mi circondava. Il sole splendeva luminoso come sempre, quasi a volersi beffare dei poveri mortali, ingenuamente convinti che nulla di male possa loro accadere finché la luce illuminava le loro giornate.
Era mezzogiorno e sulla banchina non c'era nessuno. Il prossimo treno sarebbe passato tra cinque minuti. Mi avvicinai al bordo, pensando di farla finita.
Avevo dedicato a quell'uomo gli anni più belli della mia vita. Avevo rinunciato ad un lavoro che amavo per trasferirmi nella sua città, messo da parte il mio desiderio di diventare madre per compiacerlo, perché lui i bambini li aveva sempre odiati. Avevo fatto di tutto per lui e questo è il modo in cui mi ripagava? Non era giusto.
Probabilmente quel bastardo sarebbe stato felice di non avermi più fra i piedi e sarebbe stato libero di farsi chi voleva. Gli avrei senz'altro reso la vita più semplice ponendo fine alla mia esistenza.
Sentii il rumore del treno in lontananza e misi un piede fuori dal bordo, pronta a lasciarmi cadere. Presto sarebbe tutto finito.

'E perché mai', mormorò una vocina dentro di me, 'dovresti rendergli anche quest'ultimo favore?'​
Mi allontanai di un passo, spaventata da quel pensiero.
'Hai dato tutta te stessa per quell'uomo e ora vorresti concedergli anche la tua vita? Lui non ti merita. Non merita le lacrime che hai versato per lui e di certo non merita la tua vita. Hai trascorso la tua esistenza pensando solo ed esclusivamente a lui, è ora di pensare per te adesso.'
Il treno arrivò e le sue porte si aprirono e si richiusero davanti a me. Poi ripartì.
La voce aveva ragione. Non potevo dare a mio marito, anzi ex marito, anche quell'ennesima soddisfazione. Dovevo vivere la mia vita per me stessa, non per qualcuno che non mi aveva mai meritata.
Che se ne andasse al diavolo! Presto o tardi avrebbe capito la fortuna che aveva perso. Ma sarebbe stato troppo tardi.
Mi asciugai le lacrime, mi truccai accuratamente e uscii dalla stazione con un leggero sorriso sulle labbra.
Mentre camminavo verso casa, il mondo mi sembrava aver cambiato colore. Non era più grigio come lo era stato prima, ma lievemente tinto di colori che prima non avevo mai notato. Non che l'oscurità che mi attanagliava fosse svanita, ma era già qualcosa.
Ero a qualche centinaia di metri dal mio palazzo, quando vidi una bambina che rincorreva la sua palla, che rimbalzava lontano da lei, verso la strada. Troppo impegnata a inseguire il suo giocattolo, la piccola si fiondò in strada, senza accorgersi che una macchina si stava avvicinando a grande velocità.
Non pensai, ma agii d'istinto. Corsi come non avevo mai corso prima e la spinsi via dalla strada. Sentii appena l'auto venirmi addosso e senza nemmeno rendermene conto mi ritrovai sdraiata sul marciapiede, una guancia contro il freddo asfalto, circondata da molte persone. Tra loro c'era anche la bambina che avevo salvato. Aveva un ginocchio sbucciato e teneva stretta la sua palla.
Mi resi conto che forse stavo per morire, ma non mi importava. L'avevo salvata ed era questa la cosa più importante. Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dalla stanchezza che mi pervadeva, felice per la prima volta dopo tanto tempo.

♠♠♠ 

No, non morirò per te è una storia un po' particolare, dal retrogusto malinconico ma che custodisce al suo interno un messaggio molto importante, ovvero che la vita è un bene prezioso e che non va sprecata.
Chiamatelo destino, Dio, karma o come preferite, io rimango convinta che le cose accadano per un motivo. Se Eleonora non fosse ritornata sui suoi passi non avrebbe mai salvato la vita di quella bambina. Forse era questo il suo destino, chissà. 
La vita è strana e imprevedibile, non dobbiamo mai dimenticarlo.

sabato 10 ottobre 2015

Che cos'è l'ispirazione?


"L'ispirazione è ovunque e spesso in posti inaspettati: basta solo tenere gli occhi aperti!"

Se dovessi paragonare l'ispirazione a qualcosa di concreto, probabilmente la paragonerei ad un fiume in piena; a qualcosa di travolgente, capace di scuotere ogni fibra della nostra mente o almeno, secondo la mia modesta opinione, così dovrebbe essere per chi desidera davvero scrivere. 
Non si può comandare, ma è qualcosa che talvolta ci prende all'improvviso, in qualsiasi momento della giornata, non importa cosa stiamo facendo, se siamo impegnati o abbiamo qualcosa di importante da fare. A volte basta un nonnulla per accendere quella piccola scintilla che dà il via alla nostra immaginazione, permettendole di andare a briglia sciolta.
Una volta che quella magnifica lampadina si illumina comincia a sfornare idee e non c'è modo di arrestarla; come un fiammifero acceso brucia nell'oscurità della nostra mente fino ad esaurirsi completamente, lasciando alla nostra fantasia il compito di rielaborare ogni pensiero.
Personalmente ogni volta che l'ispirazione bussa alla mia porta sento il bisogno irrefrenabile di agguantare carta e penna e buttar giù tutto ciò che mi sussurra all'orecchio. 
Scrivere per me è sempre stato così: istintivo e primordiale. Potrei rimanere ore a fissare una pagina bianca, cercando di scrivere ma, senza ispirazione, quella pagina rimarrebbe inesorabilmente bianca. 
Sforzarsi di scrivere è la cosa più innaturale del mondo. Le idee nascono spontanee: da un'immagine, un'emozione, un sogno... talvolta anche dal nulla!
Liberatevi dal desiderio di scrivere ad ogni costo e lasciatevi sedurre dall'ispirazione; lasciatevi cullare dalla vostra immaginazione e anche scrivere diventerà più semplice e spontaneo, 

Non trovate anche voi?



martedì 6 ottobre 2015

Sorridi

Ogni qual volta ripenso a quel giorno, non riesco a trattenere un sorriso. Passeggiavo con il mio carrello in un ipermercato, cercando di non pensare alla sfortuna che sembrava perseguitarmi ormai da qualche giorno e che aveva reso il mio umore più nero dell'inchiostro. Non solo il mio capo mi aveva congedata così su due piedi, dopo che per mesi mi aveva rassicurata sostenendo che mi avrebbe finalmente assunto a tempo indeterminato, ma avevo anche perso le chiavi dell'auto, che ora giaceva abbandonata davanti all'ufficio postale, in attesa che recuperassi le chiavi di riserva che, ne ero certa, si trovavano nella cassettiera della camera del mio ex. 
Imprecando a mezza voce contro la mia cattiva sorte, attirai lo sguardo di un'anziana signora che, guardandomi con disapprovazione, mi passò accanto mormorando qualcosa sui giovani d'oggi e la loro mancanza di educazione. Le lanciai un'occhiata furente e, dopo aver gettato nel mio carrello quello che mi serviva, mi avviai verso la cassa. 
Buttai alla rinfusa il contenuto del carrello sul rullo, rispondendo al saluto di un giovane commesso con un semplice cenno del capo. Pagai senza nemmeno guardarlo, arraffai lo scontrino e uscii. 
Solo quando mi misi al volante mi accorsi che stringevo ancora in mano lo scontrino. Controllai che fosse tutto a posto e notai una scritta a penna sul retro: "Ricordati di sorridere sempre. Il mondo ha bisogno anche del tuo sorriso". 
E io non potei fare a meno di sorridere. 



Ho presentato questo racconto al concorso "Coop for Words" (senza successo ahimé), nella sezione I racconti dello scontrino, in cui bisognava scrivere un racconto molto breve che poteva essere idealmente redatto sul retro di uno scontrino.
Ho scritto queste poche righe per ricordarvi, e per ricordare a me stessa, che sorridere è importante, non solo perché ci fa stare meglio, ma anche perché il nostro sorriso può migliorare la giornata di qualcun altro. Troppo spesso, quando andiamo a fare la spesa, entriamo in un negozio o prendiamo l'autobus, incontriamo persone avvolte ciascuna nel proprio mondo pieno di propri problemi e che magari hanno dimenticato come sorridere. Più passa il tempo e più mi accorgo di quanto stia aumentando questo malessere generale che sembra spegnere l'animo delle persone. 
Se possiamo fare qualcosa per migliorare la situazione, anche un piccolo gesto come sorridere o salutare qualcuno, come ad esempio una commessa o l'autista dell'autobus che prendete ogni giorno, perché semplicemente non farlo?

giovedì 1 ottobre 2015

Un angelo improvvisato

incontri speciali
Carla si strinse nel cappotto mentre camminava spedita per le vie della città. Non sapeva dove le gambe la stessero portando. Probabilmente il più lontano possibile da quel luogo infernale in cui aveva passato metà della sua vita, lavorando giorno e notte per quattro soldi. Non riusciva a credere che dopo quindici anni di duro lavoro l'avessero licenziata con una scusa banale, sostenendo che, a causa della crisi, erano stati costretti a ridurre il personale.
La verità però era un'altra, lo sapeva bene. L'avvocato Marconi e il suo socio avevano preferito liberarsi di lei solamente per assumere carne più fresca e raccomandata, senza preoccuparsi del fatto che a quarantacinque anni trovare un nuovo lavoro per lei sarebbe stato quasi impossibile.
Cercando di reprimere la rabbia che minacciava di sopraffarla, Carla scostò una ciocca di capelli che le danzava dispettosa sul viso e affrettò il passo. Erano quasi le quattro del pomeriggio e iniziava a essere stanca di girare senza sosta come un'anima in pena.
Si fermò un momento e si guardò attorno. Senza rendersene conto era arrivata fino a Piazzale Europa, dall'altro capo della città. Lì, in una piccola via laterale, c'era la casa in cui aveva trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza. Le sembrava passata una vita. Esausta e disperata, Carla si accasciò su una panchina, lasciandosi cullare da vecchi ricordi legati a quel luogo. Si rivide bambina, mentre giocava a pallone insieme ad altri bambini del quartiere o mentre si divertivano a saltare la corda.
Quella piazza era stata il loro campo da gioco ed era sempre stata presente in tutti i suoi ricordi più belli. Lì aveva trascorso gli anni migliori della sua vita: aveva giocato da mattina a sera con gli altri bambini, aveva imparato ad andare in bicicletta e ad usare i pattini. E come dimenticare quel giorno, in seconda media, in cui Edoardo le aveva dato il suo primo bacio proprio su quella panchina? Quanti ricordi!
Il suo sguardo abbracciò l'intera piazza, mentre la tristezza le riempiva il cuore. La piazza era quasi deserta. Non c'erano più bambini che correvano e giocavano allegri e spensierati. Un gruppo di ragazzini se ne stava ammassato in un angolo, ognuno col naso incollato al proprio cellulare, rinchiuso in un mondo solitario. La gente che attraversava la piazza, invece, non la degnava di uno sguardo, come se per loro quella fosse una strada qualunque e senza alcuna importanza.
«E' triste, non è vero?» disse una voce alla sua destra, spaventandola.
Carla si voltò di scatto. Si era persa a rimuginare così profondamente sulla malinconia della sua vita, da non essersi nemmeno accorta che un'anziana signora si era seduta accanto a lei.
«Come, prego?» domandò confusa.
«Dicevo, non è triste vedere come si è ridotta questa piazza? Sa, una volta portavo mia figlia qui quando era piccola. Si divertiva un mondo. Mi sarebbe piaciuto portarci i miei nipotini, ma sembra quasi che non sappiano che cosa voglia dire stare all'aperto e inventare nuovi giochi per divertirsi. Non trova anche lei?»
Carla la osservò per un momento. Avrà avuto all'incirca ottant'anni ed era avvolta da un cappottino color vinaccia. Morbidi riccioli bianchi le incorniciavano il volto, illuminato da un ampio sorriso. Sebbene tutte le altre panchine della piazza fossero vuote, aveva scelto di sedersi accanto a lei. Forse si sentiva sola e aveva bisogno di qualcuno con cui parlare, peccato che lei non fosse per niente di buonumore.
«Ha ragione, non è più quella di una volta» rispose Carla, distogliendo lo sguardo da lei.
«Eh, le cose cambiano, ma non sempre in meglio», disse la signora, accogliendo la risposta di Carla come un invito a proseguire. «Tuttavia immagino che non sia per questo motivo che lei è triste, dico bene?».
Carla era stupefatta. Possibile che il suo dolore fosse così evidente?
«Dice bene, ma preferirei non parlarne». Il suo tono di voce era fermo, ma celava al suo interno una grande tristezza, mescolata a una forte rabbia. Aveva sempre lavorato più degli altri, rinunciato a molti fine settimana e festività varie, pur di essere sempre a disposizione dei suoi datori di lavoro, dimostrando loro di essere una valida risorsa. Ora invece che le rimaneva?
«Sa qual è il segreto per vivere felici?» le domandò la vecchietta, sottraendola dai suoi pensieri. «Cercare sempre il lato positivo di ogni cosa, questo è il segreto. Qualunque cosa le sia successa, di sicuro avrà un lato positivo, ma se non riesce a vederlo stia certa che le porterà comunque del bene. La veda come un'opportunità di tirare fuori il meglio da se stessa, invece che come un ostacolo. La vita è costellata di momenti bui, ma se passiamo il tempo a rimuginarci continuamente sopra, saremo troppo impegnati ad aspettarci il peggio e ci perderemo tutto il buono che la vita porta con sé. Non trova?»
Carla era senza parole. Sembrava quasi che quella donna fosse in grado di leggerle dentro. Forse aveva ragione. Aveva passato troppo tempo a soffocare se stessa dietro ad un lavoro che non aveva mai amato. Che fosse giunto il momento di intraprendere una strada diversa e più gratificante? L'anziana signora le aveva suggerito di cambiare punto di vista e di guardare il mondo da un'altra prospettiva, senza fermarsi di fronte agli ostacoli ma di trasformarli in opportunità che la rendessero se non felice, almeno soddisfatta del percorso intrapreso.
«Grazie di cuore» mormorò Carla alzandosi e rivolgendo a quella sconosciuta un ampio sorriso. «Seguirò il suo consiglio».
«Io non ho fatto nulla» rispose serafica la donna.
«Mi ha cambiato la giornata». Carla se ne andò con il cuore più leggero, certa che non avrebbe mai dimenticato quel bizzarro incontro. Quella piazza le aveva regalato un altro momento magico.
La vecchietta la guardò allontanarsi, felice di aver fatto del suo meglio per alleviare la sua tristezza, quando una voce la chiamò: «Elvira! Ti sei messa di nuovo a impicciarti degli affari altrui, vero?»
«Che cosa te lo fa credere, Greta?» rispose ostentando una finta innocenza.
«Ti ho visto sai che parlavi con quella donna. Non la conosci nemmeno. Proprio non ce la fai a tenere fuori il tuo naso dalla vita degli altri, eh?» la sgridò l'altra.
«Forse, se fossi arrivata puntuale e non in ritardo come tuo solito, non avrei avuto alcun bisogno di chiacchierare con una sconosciuta per evitare di annoiarmi a morte nell'attesa che tu mi degnassi della tua presenza» la rimbeccò lei. La verità era che quella donna le ricordava tanto sua figlia Elisa e le si era stretto il cuore quando l'aveva vista seduta su quella panchina. Non sopportava vedere la gente soffrire, specialmente qualcuno che assomigliava così tanto ad una persona a lei cara, ma non aveva alcuna voglia di spiegarlo all'amica. Era assolutamente certa che non avrebbe capito.
«Dai su, non tenermi il broncio cara» le disse Elvira prendendola a braccetto. «Che ne dici di andarci a prendere un bel cappuccino al bar qui di fronte?»
«Mmmh... con un bel cornetto al cioccolato?» Greta si inumidì le labbra pregustando quella prelibatezza.
«Ma certamente, offro io».
«Allora mi sa che potrei anche perdonarti».
Entrambe scoppiarono a ridere e si avviarono verso il bar mentre le luci della piazza iniziavano ad illuminare la sera.